Con questa nota rispondo ad un post di Francesco Prisco che si interrogava sul perché in particolare All My Loving dei Beatles (With the Beatles, 1963) generasse commozione a valanga.
Quindi, confermo che All My Loving genera una cascata generosa di commozione e di lacrime.
Però io non so se faccio testo perché sono un piagnone e mi commuovo spessissimo. Non posso cantare ad esempio La Guerra di Piero di Fabrizio De André perché in quel momento io SONO Piero e mi rendo conto di morire non quando il nemico mi spara, ma quando mi arriva straziante il ricordo di Ninetta (ecco vedi mi sto commuovendo…) che non rivedrò più.
Per All My Loving credo che dipenda dal fatto è una canzone pop perfetta: essenziale, breve, esprime UN concetto anche musicalmente…poi ci sono alcuni accorgimenti che la rendono unica dal punto di vista del sound design.
E’ un’ up-tempo song arrangiata con uno stratagemma poliritmico. Cioè ha un diffuso “jazz feeling” swingato su cui si poggia il terzinato della chitarra rimica di John. Quindi è come se la nostalgia accelerata venisse spinta ad essere trattenuta nel breve tempo dell’addio del protagonista e della canzone dal valore metronimico con cui UN ALTRO senso del tempo – il terzinato – si oppone illusoriamente al primo.
E’ una canzone di forti contrasti. Poi il timbro e il range con cui canta Paul si innestano su una variazione del giro armonico disegnando una semplice curva melodica che raggiunge efficacemnte quasi subito il suo acme chiudendo altrettanto rapidamente il discorso.
E’ un’abilità di Paul che ritroveremo anche in We can work it out e gli deriva, credo, dalla sintesi del tematismo jazz e di quello folk/pop poi rafforzato dala lezione del R&B.
Paul a casa ha ascoltato nella sua giovinezza centinaia di temi jazz eseguiti dal padre.
Poi ricordiamoci che la form song della canzone anglosassone non esplode nel refrain come nella tradizione tipicamente italiana o mediterranea.
Ciò detto, per tornare a All My Loving, e chiudere, va aggiunto che la strutua dela song è ridotta all’osso e per questa ragione (ma non solamente) di straordinaria efficacia. Intro – verse1+verse 2 – refrain – bridge strumentale – verse1+verse 2 – refrain (2 volte) – chiusura (scarsi 2’30” o poco più).
Il punto in cui io mi commuovo – non so voi – è alla ripresa del verse dopo il bridge strumentale. E questo accade quando George entra in controcanto per terze con il suo timbro caldo a “straziare” a “stressare” ancora di più l’addio del protagonista alla fidanzata.
“Addio” che, anche per chi non conosce il test,o riecheggia prepotentemente a livello musicale.
Voglio precisare che questa spiegazione tenta di comprendere il funzionamento di una dinamica, La musicologia ha un valore in un’analisi comparata.
Per chiudere, vanno anche sottolineate due cose:
- certe abilità di arrangiamento – che nel pezzo in questione sono tutte oggetto di una precisa scelta in termini di studio del climax per la conquista del pubblico – sono figlie della grande cultura musicale che apparteneva a George Martin e di cui i Beatles si impadronirono avidamente con rispetto e grande umiltà. Segno della loro non comune intelligenza umana e artistica;
- L’organico con cui il pezzo viene eseguito è ancora associato alle SOLE potenzialità del quartetto beat, sena alcuna ulteriore aggiunta strumentale da studio. Cosa che suscita ancora più ammirazione.
Vi invito a tenere presente che anche Hard day’s Night ha un arrangiamento poliritmico da studio cioè le percussioni di Ringo che raddoppiando il down tempo di una tipica beat song rarefa e allarga il senso di marcetta a cui dal vivo non riuscivano ad ovviare con il semplice organico beat. E su quest’ultimo punto, secondo me c’è ancora da indagare.
PS: avrei dovuto fre riferimento anche a valutazioni armoniche ma mi è parso eccessivo 🙂